La spiegazione del Crimine

La spiegazione del Crimine

di Mirco Turco

Negli anni ’60 si diffondono gli studi sulla correlazione tra patrimonio genetico e comportamento criminale. Ne è un esempio la presenza del cromosoma soprannumerario Y (XYY) soprattutto per spiegare delitti particolarmente efferati. Nonostante gli scarsi studi in tale ambito, anche oggi, si ripetono teorizzazioni, nuovamente e implacabilmente riduzionistiche, su supposte predisposizioni genetiche o fattori neurologici predisponenti al crimine e al comportamento violento. Senso comune, pregiudizi, false convinzioni sono ugualmente alla base dei numerosi tentativi di relare la malattia mentale con la criminalità, forse, per spiegare proprio con la stessa, fatti o comportamenti altrimenti inspiegabili o incomprensibili! Psicosi, nevrosi, psicopatie, disturbi e intossicazioni da sostanze sono stati studiati con lo scopo preciso di identificare quelle evidenze significative proprio in ambito criminologico.

I modelli positivistici di spiegazione del fenomeno criminale hanno prodotto, quasi come tappa obbligata, l’affermarsi di nuovi orientamenti in criminologia nei primi anni del 900. Obiettivo fu quello di definire meglio e comprendere il “delinquente normale” (De Leo, Patrizi, 1999, pagg. 26, 27, 28).

Escludendo quindi patologie conclamate, è possibile pensare a tratti di personalità non patologici e differenziati che possano distinguere un delinquente da chi, invece, rispetta la norma?

La prospettiva psicologica rinvia all’idea che si possa spiegare il comportamento umano partendo dall’analisi della personalità e delle funzioni psichiche. Ma lo studio della personalità è solo parzialmente predittivo del comportamento! Se tale approccio risulta necessario per la comprensione del comportamento criminale e deviante, non è pero sicuramente sufficiente.

Molte teorie psico-criminologiche sono sorte prevalentemente sulla base di indagini cliniche e intorno agli anni ’60, alcuni studiosi cominciano a sostenere che è possibile identificare alcuni tratti della cosiddetta “personalità criminale”: aggressività, indifferenza, labilità emotiva, egocentrismo, …

Presto, si comincia a comprendere che, probabilmente, una certa “vulnerabilità psicologica soggettiva” può esporre il soggetto ad un maggiore rischio dell’ambiente e ugualmente, maggiori pressioni ambientali potrebbero influire sullo stesso soggetto (Ponti, 1990).

Di fondamentale importanza è lo studio specifico sui concetti di “modellamento” psicologico e sulle possibili alterazioni emotive che potrebbero influenzare il comportamento tipico di un soggetto (Turco e altri, 2016).

All’interno dello studio eziologico delle condotte aggressive, di rilevante interesse sono le analisi comportamentali condotte da Dollard e Miller (1939) sul concetto di frustrazione ed aggressività. Secondo gli studiosi, infatti, esisterebbe un rapporto direttamente proporzionale tra frustrazione e comportamento aggressivo, rafforzato, secondo uno schema comportamentista, dalla ripetizione di situazioni altamente frustranti. Questo stato di tensione interna, scatenerebbe con molta facilità la condotta aggressiva. Fondamentalmente, vengono descritte due diverse situazioni frustranti:

  1. Il soggetto non riesce a raggiungere i propri obiettivi preposti per una serie di dinamiche calcolabili o meno che gli impediscono il soddisfacimento dello scopo.
  2. Vengono rivolte al soggetto promesse che non vengono mantenute.

Quella di Dollard e Miller è una delle prime teorie sull’aggressività supportata da rilevanti dati empirici e sperimentali.

Secondo altri studiosi invece, sarebbe la frustrazione di bisogni fondamentali a rendere probabile la devianza ed il soddisfacimento è strettamente legato ad un bisogno di tipo quasi sentimentale ed emotivo, oltre che puramente fisiologico.

Tra questi è, per esempio, il sentimento di giustizia a rappresentare il requisito base di ogni aggregato umano. Lo sforzo socializzativo di rinunciare alla soddisfazione del piacere, aderire al principio di realtà, determina nell’uomo una pretesa di coerenza sociale. Ogni trasgressione a questo contratto primitivo, se non comporta una punizione, viene vista come ingiustizia subita. Viene così, di fatto, percepita come un’incoerenza da parte dell’autorità e un non rispetto per la propria rinuncia originaria all’impulsi dell’ES (De Leo, Patrizi, 1999).

L’aggressività, quando va a coincidere con la criminalità, va comunque intesa come una “premessa frustrante” e non va considerata solo ed esclusivamente come una risultante negativa del comportamento umano, ma anche come una dimensione aspecifica di tipo energetico. Tant’è che l’aggressività, considerata in senso lato, viene spesso utilizzata, in modo totalmente costruttivo, in svariate esperienze quotidiane del tutto normali (Turco e altri, 2016).

Altri studiosi, come il pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott (1965), attento per questo all’analisi comportamentale degli individui di giovane età, ritengono che alla base del comportamento criminale, esisterebbe un’incapacità latente di provare colpa, determinata da vicende puramente personali legate all’ambiente familiare o generalmente sociale. In tal senso, si sottolinea nuovamente la rilevanza del concetto Super-Io.

K.G. Jung (1921), nella sua prospettiva, spiega e giustifica la criminalità con la volontà di potenza; mentre Adler (1920) la lega al complesso di inferiorità. Contributi recenti fanno riferimento, invece, alla criminalità come espressione di scelte forzate e/o come problematiche complesse irrisolte.

In definitiva, affiancato quindi al concetto positivista di determinazione biologica, vi è l’evidente risultato di come il crimine non possa essere considerato solo una lineare espressione della psiche dell’individuo, in quanto alla componente biologica e quella psicologica, si aggiungono svariati componenti di tipo interattivo, quindi di carattere psicosociale.

Per comprendere come entra prepotentemente il tema della socialità all’interno dell’analisi criminologica, è necessario introdurre nuovi concetti come quello di Identità, di Sé, di Ruolo e Status, che rappresentano costrutti intorno ai quali si costruisce progressivamente un primordiale indirizzo di studi sul crimine.

Tra questi concetti, quello di “identità negativa” è il più affascinante. Introdotta da E. Erikson (1963) è concepita quale effetto delle risposte negative di esclusione, squalifica ed emarginazione che determinerebbero nell’adolescente, la costruzione di un’immagine di sé negativa. Atteggiamenti svalorizzanti delle figure genitoriali o comunque significative, previsioni di sfiducia o scarsa fiducia negli altri ed in sé stesso porterebbero, conseguentemente, a determinare un percorso negativo del processo di costruzione dell’individuo e della sua identità.

Il “giovane delinquente” sarà così segnato dal convincimento di essere diverso dagli altri, inferiore e incapace di costruire dinamiche relazionali considerate normali.

Un ulteriore filone psicosociale particolarmente denso di ipotesi rinvia al rapporto tra dinamiche familiari e sviluppo deviante.

La carenza o la totale assenza di cure materne, per esempio, così come anche la privazione della figura paterna o i possibili disturbi relativi al legame instaurato con questa figura – es. complesso di Edipo – o l’ordine di nascita in relazione al rapporto consanguineo, gli stili educativi, la disgregazione familiare e l’illegittimità rappresentano fattori che hanno dato origine a svariate ipotesi criminologiche, nonostante queste appaiano ancora fin troppo meccanicistiche e riduzionistiche.

Fondamentale, in questo tipo di teoria, è l’approccio relazionale di Watzlawick, il quale considera, appunto, il comportamento deviante come strumento comunicativo per esternare disagi o patologie. In tal senso, la famiglia e altri attori sociali giocano un ruolo assai determinante per la costruzione della psiche e del comportamento individuale di qualsiasi soggetto.

L’approccio sociologico non studia, dunque, l’uomo in quanto delinquente, ma si concentra di fatto sul crimine e la criminalità come dimensioni collettive e sociali. Il crimine e la devianza, diventano problematiche sovra-individuali e sovra-comportamentali.

La sociologia comincia ad occuparsi del problema della criminalità già dall’Ottocento: sesso, età, ceto sociale, istruzione, contesti geografici e climatici, appaiono variabili fondamentali per lo studio e l’analisi dei fenomeni criminali.

Il concetto di “anomia” di matrice durkhemiana (1893, 1897) diventa causa primaria della condotta criminale, localizzata lì dove viene percepita dall’individuo ogni completa assenza di legge, in qualsiasi campo, sia sociale o psicologico e morale. Così, si concentra l’attenzione sui quartieri, sulle città, sulle percentuali di crimini e la loro tipologia come sovraffollamento, ghettizzazioni, emarginazioni sociali ed economiche, ponendo maggiore attenzione sul concetto di spazio fisico. Ad esse non tardano ad aggiungersi numerose altre variabili di carattere sociologico come il concetto di norma, di valore di gruppo, appartenenza ed etichettamento.

L’ipotesi meccanicistica del rapporto fra struttura sociale e crimine si evince anche nella teoria delle associazioni differenziali di Sutherland (1934). “La condotta criminale verrebbe orientata dalle norme e dai valori del gruppo frequentato più precocemente nella storia del soggetto, con maggiore intensità e con una valutazione particolarmente positiva e prestigiosa dei suoi membri” (De Leo, Patrizi, 1999, pag. 50).

L’interessante teoria rappresenta una nuova chiave di lettura oltre i “soliti” crimini, verso nuove forme poco conosciute o più velate. In tal senso, Sutherland intendeva analizzare il mondo degli affari, degli industriali o di coloro che sfuggivano o erano sfuggiti, sino a quel momento, ad una sorta di controllo (white collar crime).

Ma ancora una volta, continua ad essere necessaria un’analisi multifattoriale che trova, ad esempio, in Ferri (1977) un convinto sostenitore: “…il delitto ha dei fattori individuali e dei fattori sociali … ha anche dei fattori fisici o cosmici … tutte e tre queste categorie di fattori concorrono, in una rete indissolubile, a produrre il delitto e così potremmo dire la miseria, la prostituzione, come le azioni eroiche, la beneficienza, l’industria, insomma tutta l’attività umana” (Ferri, 1977, pag. 166).

Gli approcci multifattoriali che poi, pazientemente, si sono succeduti negli anni rappresentano, probabilmente, un tentativo di non banalizzare il comportamento umano e nello specifico quello criminale, né tantomeno, un modo per rispondere diplomaticamente a questioni complesse e di fatto, poco identificabili.

Ancora oggi, esistono “battaglie” velate o meno trasparenti tra sostenitori delle teorie psicologiche, sociologiche, genetiche o biologiche. Sicuramente la società si è evoluta e in un certo senso anche il comportamento umano, compreso, ovviamente, quello criminale. Al pari, anche le discipline e i contributi scientifici si sono intrecciati in un legame forse indissolubile, che va oltre gli orientamenti o le scuole di pensiero, così come le appartenenze o le infauste convinzioni.

La criminologia, la criminalistica, la psicologia investigativa, quella criminale, così come la psichiatria, l’antropologia, la sociologia, la scienza forense, confluiscono sinergicamente oggi. Nessuna tra questa è autonoma, né può vantare posizioni esclusive e privilegiate. I confini sono quindi abbastanza flebili e forse è solo un vantaggio.

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