
Giornalismo d’inchiesta e Vittimologia
di Antonia Depalma
La definizione di giornalismo investigativo o d’inchiesta è stata fornita dall’Unesco: “la rivelazione di questioni che sono nascoste sia deliberatamente da qualcuno in una posizione di potere, sia accidentalmente dietro una massa caotica di fatti e circostanze, con l’analisi e la esposizione di tutti i fatti rilevanti per il pubblico. In questo senso il giornalismo investigativo contribuisce in maniera cruciale alla libertà di espressione ed allo sviluppo dei media, che sono al centro del mandato dell’Unesco” .
Il giornalista sardo Giovanni Maria Bellu ha, invec, definito il giornalismo d’inchiesta come “quello che scopre notizie originali, le verifica e le approfondisce” motivato dalla ricerca della verità circa una determinata fattispecie da confermare, invalidare o portare alla luce.
Questa tipologia di giornalismo richiede un efficiente lavoro d’equipe, attuato con un team specializzato in vari campi d’applicazione e con un impegno che portrebbe perdurare per un lasso di tempo più o meno lungo utile a mettere in luce dinamiche “oscure” e vicende di un certo calibro che verton su determiate realtà d’interesse sociale.
La definizione enunciata si armonizza con una delle due scuole di pensiero forniscono teorie sull’essenza del “giornalismo d’inchiesta”, inteso come un’attività che prescinde da quella del semplice cronista.
Non è raro, dunque, che un giornalista impegnato in queste indaginisia oggetto di molestie o minacce relative alla propria incolumità poiché come fine vi è, quasi sempre, quello di smascherare attività criminose o modus operandi – che possono riguardare le istituzioni ed i malfunzionamenti a queste connessi – non conformi alle disposizioni legilastive vigenti e alla deontologie richieste per lo svolgimento dell’attività oggetto dell’indagine.
Il giornalismo investigativo ha, sin dalle origine, fatto parte della storia forense statunitense: moltissime sono le realtà venute alla luce mediante le inchieste giornalistiche; tra questi vi è uno dei casi più eclatanti, rimasto negli archivi della storia dell’attività del giornalismo d’inchiasta ad oggetto politico: è questo il caso dell’indagine effettuata dalWashington Post nel 1972: il cosiddetto “Scandalo Watergate”.
Non meno risonanza ebbe il massacro di “May Lai” del 16 marzo 1968, le cui indagini furono condotte dal giornalista investigativo autonomo Seymour Hersh e pubblicate su testate autorevoli, tra le quali si annovera il Time.
Questi appena citati son solo due delle innumerevoli fattispecie portate alla luce dal giornalismo investigativo americano nel periodo intercorrente tra gli anni ’60 e ’70 del Novecento.
In Italia e, più precisamente, nella Sicilia degli anni ’90 del secolo scorso, l’attenzione del giornalismo investigativo si pose – ancor prima degli avvenimenti relativi alla strage di Capaci e di Via D’Amelio – sulla morte di un infante di soli undici anni, Claudio Domino, ucciso con un movente di matrice, probabilmente, mafiosa.
In quest’ultimo caso, tra le ipotesi ricostruttive espresse ha avuto maggiore attendibilità quello ipotizzante che il bambino palermitano sarebbe stato un inconsapevole testimone di un sequestro di persona o, comunque, di una vicenda che avrebbe richiesto l’assoluta segretezza.
Sia che si tratti di un’inchiesta ambientale, sociale o politica, lo scopo che essa si pone è quello di mettere in luce crimini e malfunzionamenti cercando di rispondere a quattro quesiti essenziali: a) a chi fa capo la responsabilità di un determinato crimine o malfunzionamento? b)com’è stato causato e come ha avuto origine? c)che conseguenze ha prodotto? d)quali sono le modalità di prevenzione del fenomeno o dei fatti posti in essere?
L’inchiesta ha il suo incipit con una domanda alla quale il conduttore dell’indagine cerca di rispondere.
Un nesso collaboratvo indissolubile vi è tra giornalismo d’inchiesta e vittimologia.
La vittomologia è definita come “disciplina che studia il crimine ponendosi dalla parte della vittima con scopi diagnostici, preventivi, riparativi e trattamentali del reato e della conseguenza da esso prodotta”; quella succitata è un definizione esplicata da Gulotta e dai suoi collaboratori nel 2020. L’aspetto “diagnostico” della vittimologia viene osservato, dunque, nella primaria classificazione delle vittime che vengono distinte tra “attive” e “passive”; in quest’ultima fattispecie rientra la classificazione delle vittime accidentali, preferenziali, trasversali e simboliche.
Particolare attenzione, invece, viene posta sulle vittime attive le quali sono, generalmente, quelle designate per la professione svolta (es. magistrati, giornalisti e agenti di polizia).
Quella appena affrontata è una superficiale categorizzazione adoperata dalla criminologia clinica; le prime considerazioni sulla vittima furono effettuate dal giurista Enrico Ferri e dal magistrato Raffaele Garofalo e contenute nella nota opera di Von Henting “ The criminal and his victim” (1948). Galimberti, nel 1999, ha definito la vittima “un individuo o un gruppo che senza alcuna violazione di regole convenute, viene sottoposto a sevizie, maltrattamenti o violenze di ogni genere”.
Indissolubile è il rapporto tra questa tipologia di giornalismo e la vittima poiche, anzitutto, questa diviene il fulcro della ricerca posta in essere dal professionista che permette il riconoscimento sociale di essa in tale status; la vittima, inoltre, grazie al giornalismo d’inchiesta può ottenere una necessaria attenzione e risonanza sulla fattispecie concreta cha la riguarda direttamente. Non è da sottovalutare, tuttavia, il lavoro formativo e preventivo che il giornalismo investigativo può attuare, non solo per la società, ma anche nei confronti del singolo: non è raro che la vittima abbia difficoltà a identificarsi come tale e, da questo punto di vista l’attività del professionista si rende indispensabile ai fini dell’identificazione dei processi in atto che hanno luogo dal momento dell’identificazione di una ingiustizia sofferta.
I compiti e le potenzialità del giornalismo in ambito vittimologico son state poste in luce dalla prof. Roberta Bisi – responsabile scientifico del Centro interdisciplinare di ricerca sulla vittimologia e sulla sicurezza (C.I.R.Vi.S.) dell’ Università di Bologna – la quale, nell’opera “Vittime, Vittimologia e Società” ha affermato che, a tal proposito, “un compito importante può essere svolto dai mass media” i quali hanno il dovere di attenersi a codici etici e morali offrendo un supporto costante alla vittima.
Tra le linee-guida proposti dalla studiosa vi sarebbe un osservatorio permanente, composto da un team specializzato sul giornalismo investigativo, che abbia il compito di analizzare le singole inchieste come «casi di studio» sul quale fare chiarezza il quale debba instaurare una costante relazione con gli studiosi della vittimologia.