Dagmar Overbye

Dagmar Overbye

Gli assassini seriali sono in gran parte uomini. Tuttavia esiste una discreta percentuale di assassine: Aileen Wuornos, Amelia Dyer, Leonarda Cianciulli, sono fra i nomi più noti. Meno famoso, per il grande pubblico, è il caso di Dagmar Overbye, responsabile di numerosi omicidi le cui vittime erano bambini. Dagmar Johanne Amalie Overbye nacque ad Assendrup, una piccola città della Danimarca, il 23 aprile 1887. I genitori, Soren Julius August Overbye e Ane Marie Petrine Kristiansdatter Johnson, erano due contadini molto poveri. Era una bambina dal carattere malinconico; iniziò a rubare in tenera età, accompagnando l’abitudine al furto agli ottimi voti che otteneva a scuola. All’età di 12 anni, Dagmar fu sorpresa a rubare la borsa del suo vicino di casa, così i suoi genitori la mandarono a lavorare per un’altra famiglia, a Funen, nella speranza che si rimettesse sulla giusta strada. La nuova famiglia la impiegò come cuoca, domestica e contadina. Nonostante il duro lavoro, Dagmar ebbe anche momenti felici: presso la nuova famiglia riuscì infatti ad avere una festa per la sua comunione, qualcosa che i suoi genitori non avrebbero mai potuto permettersi. Con il tempo, la famiglia la raccomandò presso altre case della zona. Sfortunatamente, Dagmar ricominciò a rubare, e
questa volta fu mandata in una prigione femminile.

Riassaporata la libertà, decise di tornare ad Assendrup, dove trovò lavoro come cameriera. Qui si fidanzò con un collega; tuttavia la storia durò poco, e quando Dagmar rimase incinta, l’uomo la lasciò. Dagmar diede alla luce un maschietto, che però morì in circostanza sospette. La morte improvvisa del neonato insospettì le autorità, che disposero un’autopsia; in particolare, il bambino aveva le labbra violacee, e altri segni riconducibili ad un soffocamento. Alla fine, la causa di morte venne individuata nella polmonite, e Dagmar non venne ufficialmente indagata, anche se in paese molti non erano convinti dalla versione ufficiale. Nel 1912 conobbe e si innamorò di un uomo di nome Jens Sorensen Fine, un calzolaio. Tuttavia, quando lo conobbe, era già incinta di un altro uomo. Partorì una bambina, di nome Erena, che abbandonò per salvare Jens dalla calunnia. Un anno dopo rimase nuovamente incinta, ma il compagno le chiese di interrompere la gravidanza. Dagmar rifiutò. Portò a termine la gravidanza e diede alla luce un bambino, che abbandonò su un pagliaio. Quando Jens disse a Dagmar che non l’avrebbe mai sposata, lei tentò di suicidarsi bevendo etere, senza riuscirci. A quel punto decise di riprendersi Erena, la bambina che aveva abbandonato anni prima, e si trasferì a Copenaghen per ricominciare una nuova vita. Qui aprì un negozio di dolciumi, e per un po’ condusse una vita normale. Conobbe un uomo di nome Svendsen, e si fidanzò. Un giorno lesse un annuncio su un giornale: si cercava qualcuno che volesse adottare un bambino.

A quell’epoca le giovani madri, in caso di gravidanze indesiderate, avevano poca scelta: l’aborto era illegale, oltre che molto pericoloso, e chi non poteva crescere un figlio finiva per affidarlo ad altri. Dagmar decise allora di proporsi come intermediaria; l’idea era quella di fungere da ponte tra la famiglia adottiva e la famiglia originale, mettendole in contatto. Dagmar prendeva il bambino e i soldi e poi affidava il piccolo alla nuova famiglia. Almeno, in teoria. Dagmar rispose all’annuncio e si fece affidare il bambino, promettendo di trovare al più presto una famiglia per bene. Incassò il denaro, pari a 12 corone, e portò il bambino a fare una passeggiata. Alla fine arrivarono in un cimitero e lì Dagmar uccise il bambino, soffocandolo. In seguito dirà che non aveva premeditato l’atto, e di non riuscire a dare una spiegazione circa le motivazioni del gesto. Lo stesso giorno scrisse una lettera alla madre, rassicurandola circa la salute del piccolo. Poco dopo compì il suo secondo omicidio, in circostanze molto simili al primo. A questo punto, Dagmar iniziò a convincersi di svolgere un servizio di pubblica utilità: i figli di genitori ignoti erano emarginati della società; meglio la morte che una vita di sofferenza ed emarginazione. Ebbe così inizio un vero e proprio business della morte, che durò molto tempo. Spesso Dagmar uccideva le sue vittime soffocandole, annegandole o gettandole in un forno. Divenne molto richiesta, e se per caso qualcuno aveva voglia di controllare lo stato di suo figlio, Dagmar presentava un altro bambino somigliante; del resto, ne aveva così tanti a disposizione che non era un problema.

Nel 1917, Dagmar diede alla luce un altro bambino. Sfortunatamente, il bambino era di salute molto cagionevole e morì poco dopo la nascita. La cosa devastò Dagmar a tal punto che decise di non uccidere il prossimo bambino che le sarebbe stato affidato, ma di prenderlo con sé come un figlio. Tenne fede alla sua promessa, e prese un bambino che chiamò Angelo. Poco dopo Svendsen venne arrestato per rapina, e Dagmar si trasferì in un altro appartamento con i figli. Tre anni dopo, nel 1920, Karoline Aagesen, una giovane madre, affidò la sua bambina a Dagmar, affinché le trovasse una famiglia più fortunata. Lei uccise la povera bambina il giorno stesso. La mattina seguente però, la giovane madre cambiò idea: voleva indietro sua figlia. Dagmar, che stavolta non aveva altre bambine da presentare, rispose che sfortunatamente la piccola era già stata adottata; quando la madre chiese l’indirizzo della nuova famiglia, lei disse di non ricordarlo. Alle domande sempre più pressanti della Aaegesen, Dagmar diede risposte sempre più vaghe, che insospettirono la giovane, la quale si recò dalla polizia per denunciare l’accaduto. Gli investigatori, nel perquisire l’appartamento, fecero una macabra scoperta: nel forno c’erano infatti le ossa della bambina; altre ossa vennero trovate nell’armadio, assieme a numerosi abiti per bambini e ad alcune fotografie di bambini morti.

Dagmar venne arrestata, e in poco tempo confessò di aver ucciso la figlioletta della Aaegesen. Il caso scatenò l’opinione pubblica e la stampa soprannominò Dagmar “La creatrice di angeli”, perché aveva mandato tutti quei bambini in Paradiso. Un anno dopo, Dagmar fu dichiarata colpevole dell’omicidio di nove bambini; in realtà, lei aveva confessato sedici omicidi, ma le prove, in quei casi, non vennero considerate sufficienti. Venne condannata alla pena di morte: era la prima donna a essere condannata a morte dal 1861. La pena venne successivamente commutata in ergastolo, anche perché il re Cristiano X di Danimarca era fortemente contrario alla pena capitale, che venne abolita l’anno successivo. Dagmar Overbye morì in prigione il 6 maggio 1929, all’età di 42 anni. Malgrado i numerosi morti, questa vicenda ebbe anche dei risvolti positivi: il caso evidenziò la condizione dei bambini più sfortunati, tanto che il governo diede il via a una seria riforma della legislazione in materia di assistenza all’infanzia e, nel 1923, venne approvata una legge che istituiva la creazione di case pubbliche destinate ai bambini nati fuori dal matrimonio.

APPROFONDIMENTO
Si possono fermare i mostri?


Negli ultimi anni abbiamo assistito al proliferare dei casi di omicidio seriale, soprattutto nelle aree più industrializzate del mondo. Ma siamo sicuri che quest’aumento esponenziale sia dovuto a un reale aumento di omicidi seriali e non invece al semplice fatto che è migliorata la capacità di riconoscerli attraverso le tecniche investigative, la creazione di archivi del crimine e il lavoro dei profiler? Ma quali compiti spettano ad un bravo Criminal Profiler? Questo moderno professionista, a tratti psicologo, a tratti criminologo forense, a tratti sociologo e scienziato si occupa di molte aspetti dell’indagine. Ma vediamoli ad uno ad uno.

  1. rivede e analizza i materiali di indagine come foto, prove (scientifiche e non) e le relazioni dei testimoni.
  2. discute con gli agenti sul campo dei dettagli di un crimine, al fine di fornire consulenza e approfondimenti rilevanti.
  3. è sempre aggiornato sui casi e le tecniche investigative relative ad un determinato sapere del crimine. Forma Agenti Speciali nell’uso delle tecniche di analisi comportamentale in modo che possano fornire supporto all’indagine sul campo.
  4. Partecipa a conferenze e mantiene i contatti con altro personale delle forze dell’ordine al fine di ottenere informazioni sulla psicologia del comportamento rilevante in tema di crimine violento.
  5. Conduce ricerche in materia di psicologia “aberrante” e altri aspetti del comportamento criminale violento o seriale.

Domande, tra le altre, alle quali deve rispondere il Criminal Profiler: cosa è successo durante l’esecuzione del reato? Che tipo d’individuo potrebbe commettere un simile crimine? Quali caratteristiche solitamente possono essere associate a un tale soggetto? Tanto premesso si può sostenere, senza indugio, che all’interno della branca della psicologia criminale, si sviluppa in piena autonomia quell’attività chiamata criminal profiling. Secondo tale disciplina si elabora un profilo psicologico e comportamentale di un criminale ancora sconosciuto, partendo dai più piccoli e apparentemente insignificanti dettagli della scena del crimine, da ogni notizia disponibile sulla vittima e da qualunque altra informazione. Il profiling pone i propri assunti sulla constatazione che il comportamento riflette la personalità di un individuo e da questa presa di posizione ne deriva che le azioni di un criminale, durante l’esecuzione di un reato, rispecchiano le sue caratteristiche individuali. L’obiettivo principale è fornire agli investigatori delle informazioni che possano essere utili all’identificazione e alla cattura di un criminale. Il profiling si propone quindi di ridurre gradualmente il cerchio dei sospettati a pochi individui, contraddistinti da particolari caratteristiche e comportamenti. Dovendone dare una definizione, il profilo psicologico – criminologico, può essere considerato come: “L’analisi delle principali caratteristiche comportamentali e di personalità di un individuo, ottenibili dall’analisi dei crimini che il soggetto stesso ha commesso”; non ci si limita a ipotizzare i tratti della personalità quindi, ma il profilo deve includere anche informazioni socio – demografiche come età, sesso, etnia, occupazione, istruzione e altre caratteristiche simili. La costruzione di un profilo si basa sulla fondamentale premessa che una corretta interpretazione della scena del crimine può indicare il tipo di personalità del soggetto che ha commesso il delitto. Di seguito, i presupposti fondamentali del criminal profiling:

  1. la scena del delitto rispecchia la personalità dell’autore.
  2. l’analisi globale della scena del crimine serve per formarsi un’idea di organizzazione della personalità del criminale.
  3. nel caso di crimini seriali, la rappresentazione dei bisogni compulsivi si manifesta in tutte le scene del crimine, perché diventa parte integrante della personalità del criminale. La modalità del delitto tende a cristallizzarsi nel tempo.
  4. il criminale tende a replicare lo stesso modus operandi nella sua serie di crimini, dato che ciò soddisfa i suoi bisogni emotivi e le sue fantasie.
  5. la “firma” rimane sempre la stessa. Il nucleo della personalità di un individuo tende a non cambiare durante il tempo e la stessa cosa avviene nel criminale. Criminali diversi, con personalità “simili”, compiono crimini simili. La costruzione del profilo psicologico è di natura intrinsecamente probabilistica e non identifica il criminale con una certezza assoluta, ma individua quelle che potrebbero essere le sue caratteristiche di personalità”. In letteratura sono riconosciuti due approcci fondamentali allo studio del profilo criminale: il “Modello del F.B.I.” e il “Modello Anglosassone”.

Il primo nasce alla fine degli anni ’70 presso l’Unità di analisi comportamentale del F.B.I. di Quantico, in Virginia e il lavoro di questa sezione porta alla classificazione degli autori di omicidio: (organizzato/disorganizzato) e allo sviluppo del Violent Criminal Apprehension Program (VICAP), che nasce come strumento per l’attività del collegamento dei delitti e si distingue in quattro fasi:

  1. la prima fase comporta la raccolta di ogni genere di prova materiale derivante da un’accurata analisi della scena del crimine (informazioni medico-legali risultati dall’autopsia, relative alla vittima e informazioni della Polizia circa le caratteristiche sociali e criminologiche della zona);
  2. nella seconda fase si classifica il materiale raccolto nella fase precedente, ovvero si ricercano il movente, i fattori di rischio di vittimizzazione, l’escalation e il luogo dell’aggressione, per valutare il grado di mobilità criminale;
  3. nella terza fase si valuta il crimine nella sua globalità, utilizzando il Crime Classification Manual per classificare il delitto, eventuali procedure di stagging (ovvero alterazione della scena del crimine per dissimulare il movente), la dinamica del delitto e il movente;
  4. infine, nell’ultima fase si stende il profilo, all’interno del quale vengono elencate le caratteristiche comportamentali, socio-demografiche, lo stile di vita e il tipo di occupazione del sospetto.

Il Modello Anglosassone o Modello di Liverpool invece, è stato elaborato da Canter e Hodge nel 1997 e, a differenza del modello precedente, basa la stesura del profilo su cinque fattori fondamentali:

  1. coerenza interpersonale: l’aggressore si relaziona alla vittima con modalità analoghe a quelle utilizzate con le altre persone nella sua vita quotidiana;
  2. ruolo del tempo e del luogo del delitto: queste due variabili sono spesso una scelta consapevole del criminale. Caratteristiche del crimine: le modalità di esecuzione e le peculiarità della scena vengono usate per individuare a quale categoria l’aggressore appartiene ovvero organizzato o disorganizzato;
  3. carriera criminale: l’esordio precoce di azioni criminali è il maggior predittore di una lunga e persistente carriera criminale;
  4. conoscenza sulle tecniche d’investigazione: attraverso l’analisi di ogni elemento, si cerca di capire se l’aggressore abbia o meno delle conoscenze sulle tecniche investigative. Il maggior punto di forza di quest’approccio consiste nell’uso di procedure statistiche e nel costante confronto empirico delle ipotesi, finalizzato allo sviluppo di un modello scientifico di profilo criminale.
  5. Inoltre, alle categorie organizzato/disorganizzato dell’approccio del F.B.I. spesso tra loro sovrapponibili, Canter e la propria equipe propongono la classificazione dicotomica espressivo/strumentale, sulla base delle motivazioni intrinseche che spingono il criminale a compiere l’azione delittuosa. L’espressione “serial killer”, tradotta poi in italiano come “assassino seriale”, venne usata a partire dagli anni settanta del Novecento, decennio in cui negli Stati Uniti giunsero sotto i riflettori della cronaca i primi casi eclatanti: Ted Bundy, David Berkowitz, Dean Corll e Juan Vallejo Corona. Questa definizione, usata la prima volta dal profiler Robert Ressler, aveva principalmente lo scopo di distinguere il comportamento di chi uccide ripetutamente nel tempo, con pause di raffreddamento, dagli omicidi plurimi che si rendono colpevoli di stragi, ossia gli spree killer: Si vedano per esempio il massacro al Virginia Polytechnic Institute, il disastro della Bath School, la strage di Utøya o il massacro della Columbine high school. Tecnicamente si considera “serial killer” chi compie due o più omicidi distribuiti nell’arco di sei mesi durante i quali
    il serial killer conduce una vita sostanzialmente normale. Le motivazioni psicologiche dell’assassino seriale possono essere estremamente diverse, ma in buona parte dei casi sono legate a pulsioni verso l’esercizio del potere o a pulsioni sessuali, soprattutto con connotazioni sadiche.

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
– Karen Søndergaard Koldste, Englemagersken (The Angel Maker), 2007.
– Https://www.totalita.it/articolo.asp?articolo=2557&categoria=1&sezione=44&rubrica=
– Https://medium.com/@TaraMRose/women-who-kill-dagmar-overbye-e38986868975
– Https://nordjyske.dk/nyheder/under-huden-paa-en-morder/2d1a7e6b-7594-433c-a97d-83de6bbdb73
– Https://jyllands-posten.dk/indland/article3352995.ece/
– Https://allthatsinteresting.com/dagmar-overbye

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