
Criminali si nasce o si diventa?
di Jessica Grecchi
Da quando Jack lo squartatore terrorizzava la Londra di fine ‘800, criminologi e scienziati forensi hanno cercato la chiave per entrare nella mente perversa di questi mostri.
Una cosa è certa: capire cosa porta un essere umano a compiere brutali omicidi non è un percorso univoco. Entrano in gioco diversi aspetti che vanno dalle dinamiche familiari caratterizzate da abusi nell’infanzia, ad una possibile predisposizione innata al crimine, ma non solo.
Il termine serial killer fu coniato negli anni 90 da Douglas, Ressler e Burgess che inizialmente individuarono due macrocategorie: serial killer organizzato e disorganizzato.
Successivamente, studiando nello specifico i diversi criminali presenti nelle carceri, iniziarono a suddividerli anche sulla base delle motivazioni che li spingevano a commettere un certo tipo di omicidio, delle aspettative, oltre che al riferimento all’area geografica, dando quindi una connotazione più specifica al tipo particolare di personalità connesso agli omicidi stessi.
Fino agli anni ’80 il serial killer veniva genericamente definito come assassino multiplo, in cui erano raggruppati tutti gli assassini che uccidevano più di una vittima, senza alcuna distinzione in termini di numerosità e ripetitività sugli eventi delittuosi.
Il serial killer è diverso dagli altri omicida: qui c’è la ripetitività e soprattutto la criminogenesi che è legata ad un bisogno psicologico sadico-sessuale.
Il serial killer è un soggetto spesso mentalmente disturbato che compie tre o più eventi omicidiari, commessi in luoghi differenti, separati da un intervallo di raffreddamento emozionale chiamato “cooling off time”, ovvero un periodo che deve passare da un omicidio all’altro, che può diminuire o dilatarsi di molto. Egli autonomamente decide organizza e pianifica, prevede come procederà nella criminodinamica l’omicidio stesso.
Patrick Mullany, noto per aver aperto la strada alla profilazione criminale dell’FBI negli anni ’70 e ’80, nell’osservare lo sviluppo dei serial killer, scoprì che spesso provenivano da famiglie con grossi problemi al loro interno: famiglie dominate dalle madri e dove i padri sono assenti.
Si sviluppa quindi una repulsione contro il predominio materno, che viene successivamente sfogata su altre donne nel corso delle loro vite.
Una delle prime teorie considerata come precursore della personalità del seriale è quella del trauma, ovvero, qualcosa che nell’infanzia ha segnato la personalità dell’omicida, associato a figure di riferimento che non hanno favorito lo sviluppo del soggetto, favorendo l’insorgenza del disturbo dissociativo d’identità.
In psichiatria il disturbo dissociativo d’identità è la «Presenza di due o più distinte personalità che in modo ricorrente assumono il controllo del comportamento. Il soggetto è incapace di ricordare notizie personali importanti. Utilizzato anche come difesa per sopravvivere ad una situazione di abuso, fisico, sessuale e psicologico estrema e ripetuta. La dissociazione permette al bambino di separare l’esperienza traumatica dai sentimenti di angoscia e paura sperimentati, che lo porterebbero alla perdita di contatto con la realtà e all’annullamento. Il trauma comunque permane più a lungo dei normali ricordi e porterebbero il bambino a scegliere giochi più orientati all’aggressività e alla violenza, al rifugio nell’immaginazione, in fantasie sempre più caratterizzate, nel corso degli anni, da rappresentazioni sadiche e sessuali»
Con il disturbo dissociativo d’identità è molto facile che l’altro in età adulta venga considerato come una proiezione di parti di sé. Nel momento in cui il soggetto prova rabbia e ha davanti una vittima che gli ricorda per qualche caratteristica la figura dell’infanzia significativa che gli ha fatto del male, l’individuo sfogherà tutta quella rabbia sulla vittima poiché diventa una proiezione di quello che lui ha vissuto di disfunzionale nella propria infanzia.
Gli esperti individuarono le caratteristiche presenti nei seriali nell’età infantile, ovvero quegli atteggiamenti che il bambino metterebbe in atto durante il periodo dell’infanzia.
La Triade della personalità omicida di MacDonald individua tre sintomi presenti nei bambini che potrebbero indicare una possibile propensione ad uccidere qualcuno:
● Piromania: la mania di accendere fuochi solo per il piacere di distruggere le cose
● Enuresi dopo i 5/6 anni: fare la pipì a letto oltre l’età “normale”
● Crudeltà verso gli animali: i futuri serial killer uccidono animali solo per il gusto che ne ricavano
In alcuni serial killer si poterono rintracciare i tre sintomi elencati; tuttavia, non sembrarono essere determinanti in modo inequivocabile. Verifiche successive hanno dimostrato infatti che la triade di Macdonald non è infallibile, e fu sostituita da studi comportamentali che individuarono la combinazione di tre fattori alla base della personalità dei serial killer: emotivo, interpersonale e comportamentale.
La mancanza di empatia è uno dei tratti più comuni tra gli psicopatici, ed è una carenza di interesse negli altri e nelle conseguenze delle proprie azioni: essa si sviluppa attraverso il modelling genitoriale, ma anche osservando come i genitori interagiscono tra di loro. Se il contesto familiare, tuttavia, non è responsivo nei confronti del bambino, e non gli permette di sviluppare la capacità di instaurare relazioni con l’altro, difficilmente l’individuo potrà provare empatia o rimorso nelle successive fasi della crescita.
Un altro tratto distintivo di un serial killer è la psicopatia, definita come disturbo della personalità caratterizzato dalla mancanza di rimorso nel compiere atti criminali. Può manifestarsi mediante la manipolazione e l’intimidazione, ma anche attraverso atti di violenza per controllare gli altri, e per soddisfare i propri bisogni egoistici. Il soggetto psicopatico non riesce a tenere conto dei principi interiori che, normalmente, ci impediscono di mettere in atto delle gravi condotte.
La parafilia è un’ulteriore caratteristica comune dei seriali, ed implica comportamenti o impulsi sessuali anormali, caratterizzati da intense e ricorrenti fantasie sessuali. I serial killer sono spesso soggetti che hanno vissuto precocemente la loro esperienza sessuale in modo abusante, e rapportandosi con la sfera sessuale in maniera aggressiva e perversa ritrovano la gratificazione, anche se per brevi periodi.
Quello che sconvolge dei serial killer è che spesso non incutono timore, al contrario, si mostrano loquaci e gentili, e ciò che più colpisce di loro è che spesso hanno figli e riescono ad avere successo nella vita: possono essere istruiti ma allo stesso tempo darsi all’omicidio seriale.
Da oltre 250 anni gli studiosi si chiedono se si nasce criminali o lo si diventa.
Ricerche all’avanguardia nel settore della neurocriminologia cercano di determinare se esista una predisposizione innata ai comportamenti violenti. Studi di neuroimaging esaminarono le differenze tra cervello normale e quello di uno psicopatico, ed è stato osservato che ci sono delle differenze neuroanatomiche che ci dicono che alcuni individui potrebbero essere più predisposti a diventare omicida seriali. I cervelli degli psicopatici presenterebbero compromesse funzionalità in un’area chiamata amigdala, che gestisce emozioni quali empatia coscienza e rimorso.
Nei serial killer quest’area è più piccola del 18 per cento, e questo spiegherebbe perché riescono a uccidere senza provare rimorso.
I neurocriminologi, tuttavia, non sostengono che la causa di questi comportamenti sia solo biologica, imputandola a molti fattori.
Bibliografia
John E. Douglas, Ann W. Burgess, Allen G. Burgess, Robert K. Ressler, Crime Classification Manual, seconda edizione italiana condotta sulla terza edizione americana a cura di M. Picozzi, Edi Ermes, 2016.
Holmes & Holmes, Omicidi seriali, Centro scientifico editore, 2000.